Quali sono i modelli educativi per i bambini e bambine del nuovo millennio? A che punto è l’attuazione della legge per i percorsi di integrazione tra i servizi educativi e la scuola dell’infanzia? Si può parlare di diritti europei dell’infanzia? Quali esperienze vanno valorizzate nel sistema italiano zero – sei anni? Telecamere e infanzia è un binomio che funziona? A due anni dalla approvazione del decreto che dà attuazione al sistema integrato, unica chiave praticabile resta quella pedagogica, tutta da esplorare e rendere fruibile nell’interesse delle bambine e dei bambini, delle famiglie e della società tutta.
Sono alcune delle questioni affrontate nel corso dell’iniziativa promossa dal Coordinamento nazionale per le politiche dell’Infanzia e della sua scuola presso la Sala delle Conferenze della Camera dei Deputati, mercoledì 27 marzo.
Il Coordinamento nazionale per le politiche dell’infanzia e della sua scuola è un organismo plurale formato dalle cinque e storiche associazioni professionali della scuola AIMC, ANDIS, CIDI, FNISM MCE e dai rappresentanti delle quattro maggiori organizzazioni sindacali FLC- Cgil, Cisl Scuola, UIL Scuola, SNALS – CONFSAL.
Dal 1994 collabora con Istituzioni, nazionali ed internazionali, associazioni ed enti culturali alla qualificazione delle Politiche dell’infanzia e degli operatori impegnati nell’educazione nello sviluppo e nella protezione dell’infanzia.
Riportiamo nei link i files di documentazione, qui di seguito una traccia dei temi trattati.
Una legge da attuare
Italia due velocità nell’educazione dei più piccoli: un gap da colmare non da frammentare
Il quadro normativo di riferimento è quello del decreto 65 del 2017 (che letto insieme alla legge 107 del 2015) doveva delineare un percorso per la concreta attuazione del sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino a sei anni. Una normativa nazionale andava ad occuparsi in modo specifico del segmento 0-6 come primo ‘mattone educativo’ del percorso di educazione e istruzione.
Il quadro operativo mostra una realtà molto diversa nelle varie regioni: ad una diffusione dei servizi per l’Infanzia pari al 33% dell’Emilia Romagna corrisponde un 3% della Calabria. Regioni portate spesso ad esempio come caso di eccellenza e come fanalino di coda per offerta educativa.
Livelli di diversa attenzione, diverso uso delle risorse, diverso contesto sociale, diversa gestione di personale e strutture, portano all’attuale diversificazione tra regioni. Ipotizzare una regionalizzazione, che coinvolga oltre ai servizi educativi anche la scuola dell’infanzia significherebbe ampliare ancora di più differenze che, invece, vanno colmate. Per questo il Coordinamento ribadisce la netta contrarietà ad ogni forma di regionalizzazione di questo segmento educativo.
Telecamere in classe: non c’è nessuna evidenza scientifica sul loro uso
Più che il controllo serve fiducia. Ricostruire la comunità educante, il rapporto diretto famiglie scuola
Non esiste alcuna evidenza scientifica che attesti che l’uso delle telecamere a scuola favorisca lo sviluppo armonioso della classe. Ugualmente, all’inverso, non ci sono esperienze scientificamente provate che dimostrino che il loro uso possa funzionare da deterrente rispetto a comportamenti non idonei.
L’esperienza di Reggio Emilia, città all’avanguardia in Italia nel sistema educativo 0-6, ha mostrato empiricamente che, installate le telecamere, l’attenzione verso quanto accade in classe dura mediamente due mesi. Poi scende fino a diventare residuale.
Una predisposizione massiva solo nelle sezioni di scuola dell’infanzia del sistema pubblico (statali + non statali) circa 50.000 moltiplicato il costo medio di 300 euro di ciascun impianto con piattaforma per visualizzazione in remoto 300 euro produrrebbe una spesa di 15 milioni di euro.
Investimento inutile nel merito, e sbagliato nel metodo, se – come i dati raccolti in una ricerca pubblicata da Tuttoscuola ha rilevato in cinque anni 78, con il coinvolgimento di 156 insegnanti, il 19% dei casi è registrato come abuso di mezzi di correzione. Pochi rispetto al numero complessivo di classi e di insegnanti in servizio – le cause di comportamenti anomali sono da ricercare altrove.
Turni di lavoro, età delle insegnanti, sezioni troppo numerose, difficoltà di dialogo tra famiglie e scuola, assenza di figure di supporto e coordinamento – quali ad esempio quella dello psicopedagogista in ogni scuola – fenomeni di burnout, disagio professionale non riconosciuto: sono i fattori che maggiormente incidono sul disequilibrio.
E’ dunque nei fattori che vanno a ricreare il sano equilibrio di rapporti nella comunità educante che occorre investire piuttosto che affidare alla sorveglianza meccanica delle telecamere il buon andamento dell’educazione dei bambini in fascia di età 0 – 6 anni.
Il nodo delle risorse
Se 13 milioni sembran pochi…
A Trapani non si è riusciti a spendere i 940.000 euro, quota parte dei 13 milioni di finanziamenti destinati al sistema integrato della Sicilia per il 2017. I bambini e le famiglie aspettano.
Un paradosso sembrerebbe. In una situazione diffusa di scarsità di risorse i finanziamenti annuali (all’interno di un piano triennale 2017-2019, con rispettivamente 209 milioni di euro per il 2017, 224 milioni per il 2018 e 239 milioni per il 2019) si fa grande fatica a spendere quelli che ci sono.
Quel che viene messo sotto la lente di ingrandimento è lo stato della ricerca didattica e pedagogica nel nostro Paese. Quali sono i modelli più adatti allo sviluppo educativo dei bambini del nuovo millennio? E dunque: si investe in formazione? Si investe in qualità? Possibile che alcuni comuni abbiano difficoltà ad impegnare le risorse disponibili?
Il caso siciliano non è il solo. Citato proprio nei giorni scorsi dall’assessore regionale all’Istruzione, Cristina Grieco, come «esempio traino per le politiche nazionali» l’esperienza della Toscana mostra qualche smagliatura. Le risorse disponibili sono state finalizzate tutte al sistema educativo antimeridiano, impegnando in tal senso risorse e personale. Il pomeriggio è stato affidato alle iniziative delle singole realtà educative. Scelta che a distanza di tempo si è rivelata inopportuna e poco equilibrata nei risultati.
Altra questioni aperte sono le cosiddette soluzioni facili: in assenza di una programmazione ampia nel settore dei servizi all’infanzia aumentando i posti disponibili si stornano i fondi disponibili come sostegno alle famiglie. In questo modo – piuttosto che ampliare possibilità di accesso alla scuola e ai nidi attraverso l’utilizzo strutturale dei fondi – si sceglie la via più comoda. Si danno alle famiglie che li danno alle scuole.
Altra soluzione facile è quella di investire i fondi nella formazione degli operatori, certamente utile, certamente quella su cui più facilmente ripiegare, in mancanza di idee migliori e più impegnative.
Il nodo delle risorse
La questione aperta della ripartizione tra regioni
Il piano nazionale per l’infanzia previsto dal decreto 65/2017, rischia di rimanere l’ennesima dichiarazione di intenti. Si continua, infatti, di anno in anno, in una distribuzione di risorse che non è equa e manca di una visione condivisa di sviluppo del sistema.
Ad esempio, lo scorso anno, rispetto alle regioni del Centro Nord, sono state assegnate meno risorse a Calabria Puglia, Basilicata, Sicilia, Sardegna e Campania.
Quello della Campania è un caso emblematico: con una popolazione “zero-sei anni” pari a 361.191 bambini e una percentuale di iscritti del 10,38%, sono stati assegnati 13,7 milioni di euro. Alla Lombardia, con 526.382 bambini, e una percentuale di 17,28% iscritti ha ricevuto un finanziamento di 40 milioni di euro, oltre tre volte quello della Campania.